Le cose che non pensi ti escono fuori quasi senza che te ne accorga, sempre nei momenti meno opportuni. Generalmente durante i litigi, che siano col partner, con un amico o con un genitore, poco importa: quelle frasi infelici sono lì, e rotolano fuori dalle tue labbra prima ancora che il cervello se ne renda conto.

Non ricordo più i litigi di tanti anni fa, ma ricordo bene di aver deciso che cose del genere, a me, non dovessero più accadere.
Mi dissi che non aveva senso vomitare in faccia all’altro odio e rancore, se non erano veritieri. Perché le scuse postume, seppure accettate, non sono sempre sufficienti a lenire il dolore causato dalle parole. E io non volevo ferire gratuitamente le persone che amo.

Non so se sono riuscita nel mio intento, in tutto, in parte o proprio per niente. Però so che ci provo sempre. Non uso la vecchia tecnica del contare fino a 10 prima di parlare, ma mi prendo comunque il tempo necessario. 
Sono convinta che a molti non piaccia, questo mio prendere tempo. Mi si vede, dall’esterno, scura in volto e pensierosa. Si intuisce che qualcosa bolle in pentola, ma non si hanno riscontri di alcun tipo. Si reagisce in due modi: o chiedendomi continuamente che ho (*lui*) o ignorandomi completamente (mia madre).

Però. Però in questo modo sono certa di poter avere un confronto civile, di aver capito il perché del mio stato d’animo (che sia rabbia, tristezza o non so che altro), di riuscire ad evitare di dire cose che non penso.
Inoltre, se si tratta di questioni di poco conto, il tempo per riflettere serve anche per farle scemare. Così, dopo un po’, diventano insignificanti, o perché lo siano loro stesse o perché coinvolgono persone delle quali, in fondo, non mi interessa granché.

Forse pecco di superbia, ma non sarebbe tanto meglio se tutti imparassimo a tener per noi le cose che non pensiamo, invece di riversarle sull’interlocutore al solo scopo di ferirlo?
Eppure, durante le ultime discussioni che ho avuto, mi sono resa conto che l’unica a farlo ero io.

Dal canto mio, ho preso atto degli attacchi, per nessuno dei quali mi si è chiesto scusa.
In alcuni casi ho deciso di non replicare, poiché, visto il livello delle accuse, sarebbe stato come cercare di ragionare con un bambino.
Negli altri casi, invece, ho risposto con calma ed educazione (la qual cosa, però, spesso non è vista di buon occhio dall’interlocutore-incazzato).

In entrambe le situazioni, però, ho perso un altro po’ della stima che provavo per i miei interlocutori.